L’istante decisivo

Decisive moment

Gianfranco Cavaglià
Valencia Gianfranco Cavaglia Pier Giacomo Castiglioni

“L’istante decisivo” di Pier Giacomo Castiglioni

“Ma cosa è rimasto a Lei di mio papà Pier Giacomo” concluse Giorgina dopo aver detto che ne apprezzavo l’opera e che non lo avevo conosciuyo di persona.

Tardo pomeriggio di una calda giornata di luglio alla Reggia di Venaria per la proclamazione dei premi del Compasso d’Oro ADI era stata l’opportunità dell’incontro.

Ho incontrato alcune volte l’architetto Giorgina Castiglioni in simili occasioni e sempre si è parlato di Pier Giacomo, in relazione alla mia lunga consuetudine di lavoro con Achille.

Quella identità di pensiero e armonia che aveva caratterizzato la collaborazione tra i due fratelli tanto da fare dire a Buzzati “… quasi due corpi con una testa sola” è stata interrotta con la prematura scomparsa di Pier Giacomo.

La conferma e sviluppo del successivo lavoro autonomo di Achille negli oltre trent’anni successivi hanno circostanziato l’esperienza e formazione comune del tempo.
Ben comprensibile la continuità della professionalità e, al tempo stesso, innegabile l’autonomia e la crescita di esperienza.
Comprensibile allo stesso tempo la percezione della condivisione di comuni radici.
Comuni radici da condividere con Livio, terzo fratello, che prima si separò per proseguire una propria attività più riferita all’illuminazione e a settori contigui, per raggiungere Giannino, padre di tutti, e scultore che deve aver portato in casa e nella formazione dei figli germi di progettualità che hanno trovato degno sviluppo nei geni che già aveva dato loro.

Ho avuto la fortuna di lavorare a lungo con Achille (1972-2002) e di apprezzare in modo continuo la professionalità, l’umanità che nel tempo è diventata una vera amicizia come può avvenire tra adulti, comunque sempre senza mai intaccare quella riservatezza che la differenza di età pone in modo ineliminabile.

Per rispondere in modo positivo alle richieste di Giorgina devo premettere che quanto scriverò sarà il frutto di considerazioni che derivano dal cercare di seguire e interpretare tracce dell’esperienza progettuale dei Castiglioni.

Non ho possibilità di separare l’esperienza dei due fratelli Pier Giacomo e Achille.

La prima conoscenza avveniva attraverso una loro opera: il negozio Gavina in via Cavour a Torino dei Castiglioni. Così mi fu presentato conoscendo la signora Mariolina Tani Bocca, quando la incontrai nella seconda metà degli anni Sessanta. Fu da subito un punto di riferimento cittadino che ha mantenuto sino alla chiusura dell’attività.

Quell’architettura di interni era un esempio davvero straordinario di architettura, di cultura, di contemporaneità, che aveva conosciuto ed acquisito la modernità, era lo sfondo per la presentazione di mobili moderni che non si proponevano solo come funzionali: proponevano nuovi modelli, esplicitavano una critica indiretta ai mobili in stile e introducevano in modo qualificato nuove soluzioni.
Quel negozio di via Cavour con le molteplici iniziative della Signora Bocca divenne un luogo molto frequentato: mostre di quadri, sculture sfilate di pellicce di Carlo Tivioli, presentazioni di lampade della Flos, l’arrivo di nuovi modelli della Simon (nuova espressione produttiva di Dino Gavina) i mobili e gli oggetti di Carlo Scarpa, gli oggetti di Mari e Munari per Danese, le presentazioni direttamente organizzate da Dino Gavina.

Gli spazi di quel negozio reggevano tutto, le luci potevano essere spostate secondo sapienti disposizioni, gli spazi erano quelli originali di Palazzo Marengo reinterpretati nell’essenza dell’architettura senza alcuna incertezza di stile, la chiarezza del progetto Castiglioni qualificava la preesistenza trattandola con rispetto senza subirla.
Un pavimento di piastrelle di ceramica lucida (15x15cm), di colore grigio medio, di produzione industriale era il fondale neutro, importante, per portare opere sopra una superficie che, nel riflettere luci e ombre, trasmetteva la vibrazione di una superficie che in certe ore appariva quasi liquida.

Un progetto che non rappresenta quel periodo, la realizzazione è del 1962, era l’anticipazione di ciò che sarebbe seguito.
Era un progetto dei fratelli Castiglioni progettisti anche di mobili prima per Gavina, di lampade per la Flos, molti loro progetti erano presenti anche come oggetti.
I Castiglioni venivano costantemente citati per il negozio, per gli oggetti, per i loro progetti. Non si dimentichi che non si parlava ancora diffusamente di design.

Dopo questo tentativo per ritornare a quel periodo, posso cercare di rispondere alla iniziale domanda di Giorgina “cosa è rimasto a me di Suo papà”: l’avvio di una interpretazione del progetto dell’architettura e degli oggetti.
Un modo chiaro, netto, essenziale e non solo funzionale, anche se questo poteva apparire come una interpretazione di qualche prevalenza. Le parole dei loro progetti erano parole oneste, rifuggivano da qualsiasi retorica.
Lo scoprire che in oggetti qualsiasi, strumenti di lavoro o residui, ci possano essere valori formali da interpretare.
Scoprire che la qualità del progetto sta nell’intelligenza, non nella preziosità dei materiali utilizzati.
Vedere nella produzione di serie la possibilità di condividere con molti migliori condizioni di vita (Villa Olmo continua a essere un manifesto di libertà).

Quando dico intelligenza delle soluzioni, libertà da schemi, attenzione all’utente, faccio affermazioni della mia interpretazione, ma non trasmetto l’esperienza diretta, ci provo con un esempio.
Ancora nel negozio prima Gavina e poi Simon, a Torino: le poche porte presenti per i passaggi un po’ inferiori al metro erano costituite da due ante asimmetriche smaltate di colore bianco, come le pareti totalmente imbiancate. Ho detto ante asimmetriche: una più larga per il passaggio continuo con il minimo ingombro e una semifissa, più stretta, da aprire solo se necessario. In quel palazzo, in quell’architettura così asciugata erano perfette. La proposta era così rispondente, dimensionalmente sapiente che non poneva dubbio alcuno.
Era tutta da scoprire per imparare a fare architettura.
Di Pier Giacomo costante l’apprezzamento di chi lo ha conosciuto: Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Dino Gavina, Italo Lupi.

Tutte queste sollecitazioni mi sono state proposte dai Castiglioni, Achille e Pier Giacomo.
Dell’opera di Pier Giacomo un ricordo molto preciso di uno sguardo rapido che mi è rimasto nella memoria: un’opera costituita da un pannello di 1,5 m di altezza e di una certa larghezza che non posso quantificare (per dare un’indicazione potrei dire intorno ai 50 – 70 cm), giallo, con i numeri di metri da sartoria e costituito dai metri da sartoria prima che vengano tagliati.
Sempre nella tensione di interpretare tracce di esperienze progettuali, quell’elemento, presumo preso da una certa fase della produzione, appoggiato su di un supporto e trasformato in opera, mi ha fatto capire progetti, opere d’arte, produzioni industriali.
Non ne conosco la data… e questa potrà aggiungerla Giorgina.
La motivazione del senso di quest’opera sta nell’averla individuata in una fase del processo produttivo e di fissare nell’oggetto, rapito alla fase successiva che lo avrebbe annientato con il taglio dei singoli metri, un valore formale che poi sarebbe scomparso.

L’attenzione ai valori formali nascosti nelle cose, anche nelle più umili e diffuse, è uno degli insegnamenti che ritrovo nei Castiglioni.

In questo caso quel valore formale è nascosto nel ciclo della produzione e non è percepibile.
Questo cogliere e comunicare il momento, l’istante è una emozione che richiama “l’istante decisivo” o “il fissare una frazione di secondo della realtà” di Henri Cartier-Bresson.

Grazie a Pier Giacomo Castiglioni e grazie a Giorgina per avermi chiesto di ripensare a cosa mi è rimasto del suo papà.

Gianfranco Cavaglià, architetto

Torino, novembre 2008

Pier Giacomo Castiglioni’s “decisive moment

“But what endures of my father, Pier Giacomo, for you?” asked Giorgina, after I’d told her that I admired his work but hadn’t known him in person.

It was a warm day in July, in the late afternoon, at the ADI Compasso d’Oro awards ceremony at the Palace of Venaria.

I’d met Giorgina Castiglioni a few times at similar events and we’d always talked about Pier Giacomo in relation to the many years I’d spent working with Achille.

The identity of thought and harmony that had characterized the collaboration between the two brothers, so much so that Buzzati spoke of “… almost two bodies with a single head,” was interrupted by the premature passing of Pier Giacomo.

The confirmation and development of Achille’s solo work over the next thirty years reflected the common training and experience of the time.
While the thread of professionalism remained consistent in Achille’s work, his autonomy and increasing experience were also undeniable.
At the same time, the perception of shared roots was also clear.
Common roots to be shared with Livio, the third brother, who left to pursue an activity of his own more focused on lighting and related sectors, and with Giannino, the brothers’ father, a sculptor who must have brought home and scattered throughout their upbringing the seeds of design ability, which found fertile ground in the family genes.

I had the good fortune to work for a long time with Achille (1972-2002) and thus consistently appreciate his professionalism and humanity, which over time turned into a true friendship, as can happen between adults, without, however, ever breaking down the reserve inevitably imposed by the age difference.

To respond positively to Giorgina’s questions, I must begin by saying that what follows is the fruit of considerations derived from my attempt to follow and interpret traces of the Castiglioni design experience.

There is no way I can separate the experience of the two brothers, Pier Giacomo and Achille.

My first encounter with them was through one of their works: the Gavina shop on Via Cavour in Turin, designed by them. This is how it was introduced to me by Mrs Mariolina Tani Bocca, when I first met her in the second half of the sixties. It was an instant landmark for the city and remained so until its closure.

That interior architecture – a truly extraordinary example of architecture, culture and contemporaneity, which had known and embraced modernity – provided the backdrop for the presentation

of modern furniture that was not only functional: it also proposed new models,
expressed an indirect criticism of period furniture and introduced new, expert solutions.
That shop on Via Cavour, thanks to Mrs Bocca’s various initiatives, became hugely popular: exhibitions of paintings, sculptures and runway shows for Carlo Tivioli furs, launches of Flos lamps, the arrival of new Simon models (a new Dino Gavina brand) furniture and objects by Carlo Scarpa, and objects by Mari and Munari for Danese, as well as launches directly organized by Dino Gavina.

That shop could display anything. The lighting could be rearranged into ingenious configurations. The spaces were those of the original building, Palazzo Marengo, reinterpreted to capture the essence of architecture with a marked sense of style. The clarity of the Castiglionis’ design recognized the pre-existing space, respecting it without allowing it undue influence.
The floor of mass-produced polished ceramic tiles (15x15cm), mid-grey in colour, served as the important, neutral backdrop: pieces could be presented against a surface that, when reflecting light and shadow, transmitted vibrations in such a way that, at certain times of day, almost appeared liquid.

A design that was not representative of the time: dating from 1962, it was a preview of things to come.
It was a design by the Castiglioni brothers, who also designed furniture for Gavina, lamps for Flos; many of their designs were also present as objects.
References to the Castiglionis were everywhere: in relation to the shop, objects and projects. We should remember that people did not yet talk widely of “design” at that time.

After this attempt to return to that period, I can try to answer Giorgina’s initial question: “What endures of my father, Pier Giacomo, for you?”: the beginnings of an interpretation of the design of architecture and objects.
A way that was clear, defined, fundamental and went beyond functional, although the latter appeared a somewhat prevalent interpretation. The words of their designs were honest words, shunning all rhetoric.
The discovery that any objects, tools or discarded waste materials, can contain formal values to be interpreted.
The discovery that the quality of design lies in intelligence rather than the luxuriousness of the materials used. The recognition in mass production of the possibility to share better living conditions with many (Villa Olmo remains a manifesto of freedom).

When I point to the intelligence of their solutions, their freedom from patterns, their focus on the user, I am making statements based on my own interpretation, but I’m not conveying direct experience. Let me try to do this with an example.
In the same shop, first Gavina and then Simon, in Turin: the few doors that there were, fitted for openings just under a metre wide, were asymmetrical pairs painted white, just like the totally whitewashed walls. I said asymmetrical: one larger door to allow people to pass through comfortably at all times and one semi-fixed, narrower, to be opened only when necessary. In that building, with its spare style, they were perfect. The solution was so responsive, so well suited dimensionally that it left no room for doubt.
Everything was to be discovered when it came to learning architecture.
Those who knew Pier Giacomo held him in unwavering esteem: Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Dino Gavina, Italo Lupi.

All these stimuli were offered to me by the Castiglioni brothers, Achille and Pier Giacomo. Of Pier Giacomo’s work, I have one very specific image, just a glance, that has remained in my memory: a panel 1.5 m high and of uncertain width (to give an idea, I’d say around 50–70 cm), yellow, made up of several tape measures before they were cut, with all the printed measurements.
Still attempting to interpret traces of design experience, I would say that this element, taken I assume from a certain stage of production, resting on a support and transformed into a piece in its own right, made me understand design, works of art, and industrial production processes.
I don’t know the date… I shall leave that to Giorgina.
The meaning behind this piece lies in identifying it at a stage in the production process and, having snatched it from next stage that would have destroyed it by cutting the individual tape measures, instilling it with a formal value that would otherwise have disappeared.

Attention to the formal values hidden in things, even the most humble and commonplace, is one lesson I learned from the Castiglionis.

In this case, that formal value is hidden in the production cycle and is not perceptible.
This recognition and communication of the moment, the instant, evokes Henri Cartier-Bresson L “decisive moment” or his capturing of “a minute part of reality”.
My thanks to Pier Giacomo Castiglioni and to Giorgina for asking me to consider her father’s enduring impact on me.

Gianfranco Cavaglià, Architect

Turin, November 2008