Sul filo dei ricordi

Strands of Memories

Sul filo dei ricordi Giancarlo Iliprandi

Lo studio degli Architetti Castiglioni, frequentato negli anni cinquanta, non è questo di Piazza Castello. Passato sotto la tutela della Fondazione Triennale. Era uno spazio, altrettanto magico, in Corso di Porta Nuova. Affiancato ad un atelier, decisamente più riservato, dove lavorava Giannino. Scultore di grandi opere.

Giannino Castiglioni, il padre, era uno dei visitatori abituali.

Capitava all’improvviso chiedendo chissà cosa, il giornale piuttosto che una gomma per cancellare. Regalando grandi sorrisi.

Altre piacevoli sorprese erano i racconti di Livio, altro architetto ma con studio per suo conto. Indiscusso esperto di luci e di illuminotecnica, collezionista di feltri classici e bastoni da passeggio multiuso. Pure lui coinvolto ni un famoso, anzi famigerato, raid a base di petardi in un tranquillo paesino di un cantone svizzero particolarmente tradizionalista. Con tutto il coinvolgimento inevitabile della locale Kantonalpolizei Corresponsabile Max? Naturalmente, Max Huber era qualcosa di più di un visitatore abituale, essendo decisamente stanziale. Una presenza costante durante i momenti di intensità progettuale, cioè quasi sempre.

Non ricordo ora come abbia conosciuto A & PG Castiglioni. Se per colpa di Munari o dello Steiner, se con Ciuti, Taiuti o Bianconi. Ma credo che il principale responsabile sia stato Huber, che incontravo abitualmente con Roberto Leidi all’Aretusa.

Erano gli anni di una Milano New Orleans, non ancora da bere, dove si beveva anche troppo. Ma si lavorava.

Quindi nello studio di Popo e Cici, come li chiamavamo confidenzialmente, sono entrato per un incarico di lavoro. Che credo riguardasse un allestimento per la RAI, radioaudizioniitaliane, diventata subito Radio Televisione Italiana.

Cosa colpiva, aprima vista, in quello studio memorabilmente e progettualmente bianco, era uno specchio enorme piazzato diagonalmente a raddoppiare l’ingresso. Il grande tavolo a cavalletti, alcuni sedili da mezzadro o per ciclopatti, lampade grandiose come la loro ideazione sospese da fili di nylon, un Guzzino rosso. Che in una notte di disegni e adrenalina ricordo di aver filettato di verde. Senza ricevere particolari complimenti.

Poi c’erano loro due. Pier Giacomo e Achille, A & PG in ordine alfabetico nelle didascalie. Popo e Cici per Giannino, per Livio, per Max e per noi amici Diversi ma simili. Complementari, è stato detto, però il termine non è quello che si adatta meglio. Pier Giacomo più teorico e Achille più pratico. Può darsi.

Però non cosi banalmente semplice, perché di un concerto a quattro mani quello che apprezzi è la fusione di una abilità non solo strumentale, bensì anzitutto di una intenzione creativa, della espressione di un concetto. Di una interiorità.

Chi ha vissuto a fianco dei Castiglioni una stagione felice del design italiano, quella dell’exhibition design nel quale siamo stati unici, non può certo permettere che due personaggi del genere vengano vissuti separatamente. Per ragioni che, sinceramente, non interessano.

Ricordo con la medesima stima, ma soprattutto con il medesimo affetto, entrambi. Più facile la collaborazione con Achille, certamente più divertente. Per un suo modo di fare ammiccante, spiritoso nei riferimenti dialettali, carico di simpatia istintiva. Achille era una specie di fauno nel mondo dei segni o meglio dei simboli. Pier Giacomo era più tranquillo, almeno all’apparenza, arrivava da più lontano. Era da andare a scoprire sotto le chiusure contingenti.

Pier Giacomo vestiva di chiaro, accostando i toni con estrema raffinatezza, non amava parlare troppo, aveva sorrisi improvvisi che rivelavano una dolcezza nascosta. Sotto una specie di distacco intellettuale dalla pratica quotidiana. Se il termine snob volesse ancora significare qualcosa, in senso positivo per il forte contenuto di opposizione a un certo mondo delle apparenze, potrei definire Pier Giacomo uno snob inequivocabile. Come Franco Albini, come Gino Valle, come persino Ettore Sottsass. Ettorino più vero di quello che la cronaca si accontenta di rappresentare.

Se il design è il paradigma di quella cultura del fare, che ha improntato di sé il secolo scorso, allora possiamo continuare a leggere l’opera degli architetti Castiglioni con i parametri limitativi adottati sino ad oggi. Ma se design è anche più sottile confronto con lo stile, con questo termine desueto perché non ancora ben delineato, allora diventa necessaria una maggiore chiarezza per andare a rileggere i termini. Forma, funzione e innovazione. Dove e quando?

Mettiamo da parte per un attimo le logiche di forma-funzione.

Questa innovazione di allora, tutta italiana, da quali e quanti concetti parte, da quali concezioni, da quali teste? Perché questo è il problema che dovrebbe maggiormente coinvolgerci e non chi segnasse nero su bianco sulla carta. Perché il design è un’altra cosa, il design è un modo di concepire gli oggetti e quindi il rapporto degli oggetti con gli uomini.

Per questo i Castiglioni, inseparabili, inscindibili, unici, sono e restano dei grandi designers.

The Architetti Castiglioni’s studio that I frequented in the 1950s was not the one in Piazza Castello, now under the protection of the Fondazione Triennale. It was an equally magical space in Corso di Porta Nuova. It was adjacent to a decidedly more reserved atelier, where Giannino worked. A sculptor of great works.

Giannino Castiglioni, the father, was one of the regular visitors.
He would turn up unexpectedly asking for who knows what, the newspaper or an eraser. Giving big smiles.
Other pleasant surprises were the stories told by Livio, another architect but with his own studio. An undisputed expert in lights and lighting technology, a collector of classic felt hats and multipurpose walking sticks. He, too, was involved in a famous, or rather infamous, firecracker incursion in a quiet village in a particularly traditionalist Swiss canton. Followed by the inevitable involvement of the local Kantonalpolizei. Max jointly responsible? Of course, Max Huber, being decidedly settled in, was more than just a regular visitor. A constant presence during periods of intense design work, which is to say, almost always.

I don’t remember now how I met A & PG Castiglioni. Whether it was Munari’s or Steiner’s fault, whether with Ciuti, Taiuti or Bianconi. But I think the main culprit was Huber, whom I regularly met with Roberto Leidi at Aretusa.
Those were the years of a New Orleans Milan, where people drank a bit too much, though the city was not yet dubbed “drinking Milan. But they did work hard.
So I entered the studio of Popo and Cici, as we called them confidentially, for a work assignment.
I think it involved an installation for RAI, “radio audizioni italiane”, which immediately after became Radio Televisione Italiana. 

What struck one at first sight in that memorably white studio was a huge mirror placed diagonally to double the entrance space. There was a large trestle table, some seats for sharecroppers or cyclopaths, lamps as grand as their design suspended by nylon threads, a red Guzzino, which in a night of drawings and adrenalin I remember threading with green. Without receiving any particular compliments.

Then there were the two of them. Piergiacomo and Achille, A & PG, in alphabetical order in the captions. Popo and Cici to Giannino, to Livio, to Max and to us, their friends. Different but similar. Complementary, it has been said, but the term is not the one that fits best.
Pier Giacomo more theoretical and Achille more practical. Perhaps.
But not so trivially simple, because what you appreciate in a concert for four hands is the fusion not only of instrumental skill, but first and foremost of a creative intention, of the expression of a concept. Of an interiority.

Those who lived alongside the Castiglionis during that happy season of Italian design – of the exhibition design in which we were unique – certainly cannot allow two such personalities to be experienced separately. For reasons that, frankly, hold no interest.
I remember both of them with the same esteem, but above all with the same affection. Working with Achille was easier, certainly more fun, because of his teasing manner, his humorous remarks in dialect, his instinctive geniality. Achille was a kind of faun in the world of signs, or rather, of symbols. Pier Giacomo was calmer, at least outwardly, he came from further away.
One had to go and discover him under the temporary shutdowns.

Pier Giacomo wore light colours, combining them in an extremely sophisticated way, he didn’t like to talk too much and he would smile suddenly in a way that revealed a hidden sweetness under a kind of intellectual detachment from everyday life. If the term snob still meant something, in the positive sense of strong opposition to a certain world of appearances, I could characterize Pier Giacomo as an unequivocal snob.

Like Franco Albini, like Gino Valle, even like Ettore Sottsass. A truer Ettorino than the way he is usually portrayed.

If design is the paradigm of the culture of doing that shaped the last century, then we can continue to read the work of the Castiglioni architects with the limiting parameters adopted to date. But if design is also a more subtle dialogue with style, with this term which is obsolete because still not well defined, then greater clarity becomes necessary in order to revisit the terms. Form, function and innovation. When and where?

Let’s set aside for one moment the form-function logic.
The all-Italian innovation of that time stems from which and how many concepts, from which conceptions, from which heads? Because this is the question that should most absorb us, and not who put down black on white on paper. Because design is something else. Design is a way of conceiving objects and therefore the relationship of objects to people.
This is why the Castiglionis, inseparable, indivisible, unique, are and remain great designers.

 

Giancarlo Iliprandi

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